Abbiamo costruito un’isola, immaginaria e molto concreta. Il suo terreno è fatto di strati di abiti, accessori e suppellettili saltati fuori da cassetti, cantine, solai e vecchi bauli di teatranti. Non ha leggi, quest’isola: per chi viene a visitarla c’è una libertà assoluta di trasformarsi, di riplasmare a ogni minuto la propria identità. È una libertà che ricorda, certo, quella dei giochi tra bambini; ed è con il pensiero rivolto al “bambino che non vuole crescere” per eccellenza, al Peter Pan di James B. Barrie, che abbiamo chiamato la nostra isola Never Never Neverland. Ma siamo consapevoli del sottofondo ambiguo e pericoloso di ogni tentativo di ritorno all’infanzia, come testimonia l’inquietante Neverland che è stata dimora di Michael Jackson, splendente e dolente icona pop cui pure rendiamo omaggio in questo spettacolo. Diamo sfogo al nostro desiderio di infinita metamorfosi, abbandonandoci a una sequenza di travestimenti giocosi; eppure questi stessi giochi fanno da specchio, critico e straniante, all’infantilismo della società dei consumi.